Allahu Akbar

«Allahu Akbar- ullahu Akbar! Dio è grande, Dio è grande!»
Il muezzin canta il richiamo a pregare.
Ci alziamo tutti in piedi.
«Allahu Akbar, Allahu Alkbar. Hayya ‘ala as-sala!»
Ascolto chiudendo gli occhi. Il nostro muezzin ha proprio una bella voce e dà piena dignità al richiamo della preghiera che è un canto meraviglioso. Tocca il cuore di un fedele nel profondo. È un canto che mi suscita nostalgia del mio Paese d’origine. Lì la giornata è cadenzata da queste melodie che risuonano cinque volte al giorno, ogni giorno. La voce del muezzin echeggia tra le colline di Amman e, anzi, giunge in modo differito da ogni angolo, creando un effetto suggestivo.
Fin da bambina, quando vado dai nonni, nel momento del richiamo esco e mi siedo sui gradini della porta esterna di casa, tra gli ulivi e il gelsomino. Ascolto l’azan e mi lascio andare al ricordo e all’invocazione di Dio in un intenso raccoglimento spirituale.
Poi mi viene un brivido alla schiena al terzo “Allahu Akbar” cantato dal muezzin.
Mi vengono in mente i titoli di giornale dopo alcuni attentati terroristici; la paura della gente nei confronti dell’espressione “Allahu Akbar”. Nell’immaginario collettivo è ormai diventato l’annuncio di un kamikaze che compie l’orrore e abusa in modo strumentale della religione.
“Allahu Akbar” dovrebbe, invece, esprimere la bellezza e l’essenza divina. Dovrebbe aiutare la riflessione sul creato di colui che genera e non è stato generato.
Invece… Invece ci evoca i kamikaze che si fanno esplodere in nome di un dio inventato.

Quello che abbiamo in testa è un romanzo di Sumaya Abdel Qader, una donna perugina con genitori giordano-palestinesi, laureata in Biologia, Mediazione Linguistica e Sociologia; nel libro è raccontata la vita di Horra, una giovane italiana di origine giordane, in mezzo tra due mondi: quello occidentale e quello orientale. Nel libro, tra un episodio e l’altro dell’impegnatissima vita di Horra (è sposata, ha due figlie adolescenti, lavora in uno studio come segretaria, fa volontariato in un’associazione che si occupa dell’aiuto delle altre donne e frequenta regolarmente la moschea), vediamo come uno dopo l’altro vengono smontati tutti i pregiudizi che la maggior parte delle persone ha verso i musulmani. Aiuta molto a capire quanto l’Italia sia ancora, per certi tratti, un paese con apertura mentale piuttosto limitata: anche al solo fine di vivere più serenamente gli uni con gli altri, dobbiamo abbattere i muri culturali che ci dividono; è proprio la diversità a rendere uniche le tradizioni e le abitudini di ogni paese, quindi perché imporci dei limiti? Più culture conosciamo, e più ne avremo voglia di conoscere. E questa, secondo me, è una delle vere ricchezze della vita.

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